Costruiamo insieme il nuovo ospedale

Costruiamo insieme il nuovo ospedale

Voluta dalla Fondazione Giovanni Paolo II e finanziata dalla Cei, da due diocesi toscane e da tanti enti e privati, sorgerà a Beit Jala. E sarà aperta a pazienti di ogni etnia e fede.

Non disterà molto dalla basilica della Natività. Una scelta e non un caso, giacché sempre di infanzia si tratta. Un modo per far sì che il Natale – inteso come l’irrompere del bene nelle pieghe della storia quotidiana – non duri solo un giorno. La clinica di chirurgia pediatrica Benedetto XVI, la prima della Palestina, deve sorgere nella cosiddetta zona C, il che complica un po’ la faccenda, dal momento che si tratta di un’area sotto la piena giurisdizione dell’Autorità nazionale palestinese, ma dove non si può fare nulla senza l’esplicito consenso di Israele. «Il permesso non tarderà, ne sono sicuro», dichiara padre Ibrahim Faltas, 45 anni, francescano della Custodia di Terra Santa e parroco di Gerusalemme. «Ho anzi la fondata speranza che si possano aprire i cantieri già a febbraio e che, tempo due anni, la clinica cominci a funzionare a pieno regime».
Famosa per l’artigianato in legno d’ulivo, sede di industrie tessili, del tabacco e farmaceutiche, Beit Jala è una città della Cisgiordania, si trova 10 chilometri a sud di Gerusalemme, sul lato occidentale della strada che porta a Hebron. È proprio di fronte a Betlemme: pare che il suo nome derivi dall’aramaico e significhi “tappeto d’erba”. Beit Jala ha circa 15 mila abitanti, prevalentemente cristiani. La clinica metterà radici lì.
«In quest’area di oltre 170 mila persone non c’è alcun reparto di chirurgia pediatrica», spiega padre Faltas. «Bisogna andare a Gerusalemme per trovarne uno. Per raggiungerlo i palestinesi hanno bisogno di lasciapassare che gli israeliani danno con il contagocce. Normalmente ogni bambino può essere accompagnato da un genitore soltanto».
È maturata così l’idea di costruire una nuova struttura. Che serva tutti, senza distinzioni etniche o religiose. Che sia all’avanguardia per competenze e attrezzature, conservando l’umanità e il calore propri di queste parti. Il progetto ha preso corpo grazie all’impulso dato dalla “Fondazione Giovanni Paolo II per il dialogo, la cooperazione e lo sviluppo”, nata come risultato del decennale impegno in Medio Oriente di due diocesi toscane: quella di Fiesole e quella di Montepulciano-Chiusi-Pienza.

Un forte impegno finanziario
I progetti della Fondazione hanno l’obiettivo di far respirare quella tribolata regione, vengono elaborati in stretta sintonia con chi vive sul posto, i vari patriarcati e la Custodia di Terra Santa innanzitutto, e sono finanziati da diversi enti, la Cei in primo luogo. Si vuole così evitare, tra l’altro, che la culla del cristianesimo si svuoti di cristiani.
«Nel caso specifico», riprende padre Ibrahim Faltas, che della Fondazione è vicepresidente, «il progetto vede coinvolti, per parte italiana, la Regione Toscana e l’ospedale pediatrico Meyer di Firenze, per parte palestinese il ministero della Sanità dell’Anp e l’Ufficio del primo ministro».
La nuova struttura è stata studiata per poter operare bambini d’età compresa tra 1 e 14 anni. Si prevedono 40 posti letto e la possibilità che anche le famiglie, mediante spazi dedicati, possano seguire i loro cari. L’intera clinica è pensata per brevi periodi di degenza. A garantire un’adeguata assistenza prima e dopo le operazioni saranno gli ambulatori dotati delle tecnologie mediche più avanzate che arricchiranno l’offerta del Basr (Bethlehem arab society for rehabilitation), l’ospedale già esistente a Beit Jala, appoggiandosi al quale nascerà la clinica Benedetto XVI.
Per la costruzione e l’attrezzatura dei reparti è previsto un impegno finanziario complessivo di diversi milioni di euro, in parte coperti dalla Regione Toscana e dalla Cei. I credenti italiani, a cominciare dai lettori di Famiglia Cristiana, sono invitati a contribuire. Chi vuole, può far pervenire la sua offerta nei modi precisati a parte in questa pagina.
«Il 27 ottobre abbiamo posato la prima pietra», ricorda padre Ibrahim Faltas. «C’erano il patriarca latino di Gerusalemme monsignor Fouad Twal, che ha offerto il terreno, il primo ministro palestinese Salam Fayyad, e il ministro della Sanità Fathi Abu Moghli. C’era anche l’assessore regionale toscano alla Cooperazione internazionale Massimo Toschi, più i vertici della Fondazione Giovanni Paolo II. Contiamo molto su questa realizzazione. Al di là dell’aspetto sanitario, intende essere anche la dimostrazione che la pacifica coesistenza tra persone dal differente credo religioso è possibile».
È Natale. «Gli israeliani», precisa padre Ibrahim, «hanno concesso ai palestinesi cristiani il permesso di uscire dai Territori per entrare in tutta la Terra Santa dal 20 dicembre al 20 gennaio. Sono stati autorizzati anche 300 cristiani della Striscia di Gaza: l’anno scorso erano 500, poi scoppiò la guerra. Speriamo che quest’anno non si ripetano violenze».
Il 2009 è stato l’anno della visita del Papa, «che ha dato frutti positivi, non solo nel campo spirituale», conclude padre Ibrahim Faltas. «Dalla Messa celebrata da Benedetto XVI nella basilica della Natività, Betlemme è aperta ai palestinesi cristiani con passaporto israeliano. Un permesso, fino a non molto tempo fa, tutt’altro che scontato, anzi. Un buon segno».

Alberto Chiara

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