«Diamo un futuro ai giovani iracheni»

«Diamo un futuro ai giovani iracheni»

Incontro con l’arcivescovo latino di Baghdad Jean Benjamin Sleiman che si trova in Toscana per il varo di un progetto di solidarietà promosso dalla Fondazione Giovanni Paolo II. «Nel nostro Paese – spiega – è la paura ad unire la piccola minoranza cristiana. Ma i musulmani più illuminati ci chiedono di non andarcene»

da Fiesole (Firenze)
Andrea Fagioli, 8 Marzo 2009

La sua diocesi corrisponde ad un’intera nazione, ma il suo clero è composto soltanto da qualche decina di religiosi e di missionari, mentre il suo popolo si riduce di giorno in giorno. È l’arcivescovo latino di Baghdad, Jean Benjamin Sleiman, carmelitano scalzo, sacerdote dal1973, nato in Libano da famiglia maronita 63 anni fa, dal 2001 in Iraq. Lo incontriamo al Seminario di Fiesole, ospite deI vescovo Luciano Giovannetti. Parla l’italiano correntemente, memore degli anni dell’insegnamento di Antropologia sociale e culturale al «Teresianum» di Roma, dopo aver studiato teologia e scienze umane e sociali all’Istituto cattolico di Parigi e avere insegnato all’Università gesuita di Beirut.
Monsignor Sleiman è in questi giorni in Toscana per mettere a punto un progetto di solidarietà promosso dalla Fondazione Giovanni Paolo II, che da alcuni anni opera a favore dei cristiani deI Medio Oriente. L’idea è quella di realizzare un Centro polivalente per i giovani nei pressi della Cattedrale di Baghdad.
«I giovani – dice SIeiman – sono la realtà su cui puntare, rappresentano il futuro. Per troppo tempo la gioventù non ha avuto in Iraq lo spazio che meritava».
Ma quaI è la situazione attuale deI martoriato Paese mediorientale soprattutto dopo il calo dell’attenzione internazionale compresa quella da parte dei mass media? «Al momento c’è una situazione di relativa calma – spiega l’arcivescovo autore di un recente volume dal titolo “Nella trappola irachena -. Stiamo assistendo da qualche mese a una riduzione della violenza e questo giova a tutti, cristiani e non cristiani, anche perché i cristiani sono ormai un’esigua minoranza». Si parla di una cifra tra i 400 e i 500 mila, di cui l’80 per cento cattolici, su una popolazione di 25 milioni. «Purtroppo non è facile avere dei numeri precisi – aggiunge Sleiman -. Qualche anno fa si parlava di un milione, ma molti se ne sono andati: un vero e proprio esodo dettato dalla paura».
Non ci dimentichiamo che proprio un anno fa veniva ucciso l’arcivescovo caldeo di Mosul, Paulos Faraj Rahho e proprio dalla città sulla sponda occidentale deI Tigri nei mesi scorsi sono fuggite migliaia di famiglie cristiane. «Non sanno dove andare, ma se ne vanno. Non hanno progetti, vanno alla ventura, soprattutto in Libano o in Siria chiedendo all’Onu la condizione di rifugiato. È la paura – ribadisce SIeiman – che unisce tutti i cristiani in Iraq. Ci sono isole più felici, ma ci sono molte zone in cui è in atto una persecuzione nei confronti dei cristiani».
Anche andare alla Messa può essere pericoloso, nonostante che di fronte aIle chiese non si facciano parcheggiare o passare le auto, che rappresentano ancora uno dei mezzi più usati per gli attentati. «A Baghdad – spiega ancora l’arcivescovo – ci sono una sessantina di chiese: la metà sono chiese caldee. Noi latini ne abbiamo solo quattro, anche se regolarmente officiate, senza contare i conventi che hanno le loro. Tutte e quattro le nostre chiese sono rette da religiosi.
Noi latini insieme agli armeni siamo le comunità più piccole». E infatti variegato il panorama delle Chiese cristiane in Iraq. Gli stessi cattolici si distinguono tra caldei, siro-cattolici, armeni cattolici, greci cattolici e latini. Poi ci sono gli ortodossi (a loro volta suddivisi in numerose comunità) e i protestanti. «Il dialogo comunque c’è – dice l’arcivescovo latino -, anche con protestanti e ortodossi. A febbraio, ad esempio, c’è stato un raduno di tutte le Chiese cristiane dell’Iraq e per la prima volta abbiamo parlato a una sola voce arrivando a decidere di fare qualcosa tutti insieme a favore dello sviluppo integrale della persona».
Un aiuto monsignor Sleiman se lo aspetta anche dai cristiani di casa nostra: «Ogni scambio – dice – è già di per sé un incoraggiamento, ma la Chiesa in Occidente deve incoraggiare la Chiesa in Iraq a prendere coscienza deI proprio ruolo, dell’importanza che ha per tutti. L’Oriente cristiano esiste e può svolgere un ruolo molto positivo a servizio della pace, della coesistenza e dei rapporti culturali. La presenza cristiana nei Paesi arabo-islamici va protetta e sostenuta. Oggi dobbiamo capire una cosa importante: se si lascia l’islam da solo sarà peggio per tutti, finirà per dialogare con sé stesso. I musulmani più illuminati ce lo chiedono già: non lasciateci soli».

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