Unire i giovani per unire il Mediterraneo. Baturi: così costruiamo la pace dal basso

Unire i giovani per unire il Mediterraneo. Baturi: così costruiamo la pace dal basso

A colloquio con il segretario generale della Cei sul Consiglio dei giovani del Mediterraneo. «Una possibilità inedita che scommette su una generazione che ha sogni alti e ha a cuore i destini del mondo intero»

di Giacomo Gambassi

Il segretario generale della Cei, l'arcivescovo Giuseppe Baturi, con i ragazzi del Consiglio dei giovani del Mediterraneo riunito a Firenze - Andrea Ceredani

Unire i giovani per unire le nazioni. Sui passi del sindaco “santo” di Firenze, Giorgio La Pira, la Chiesa italiana «scommette sulle nuove generazioni per costruire un Mediterraneo di pace», spiega il segretario generale della Cei, Giuseppe Baturi. L’arcivescovo di Cagliari ha tenuto a battesimo il Consiglio dei giovani del Mediterraneo che a metà luglio si è insediato nel capoluogo toscano, sede della consulta. È l’inizio di un cammino senza precedenti che riunisce quaranta ragazzi espressione di diciotto Paesi affacciati sul grande mare. Ed è il lascito che la Conferenza episcopale italiana consegna a Firenze, la città che aveva ospitato il secondo Incontro dei vescovi del Mediterraneo nel febbraio 2022 insieme al forum dei sindaci dell’area. Un doppio “summit” ecclesiale e civile da cui era scaturita la Carta di Firenze, una dichiarazione nel segno della riconciliazione, del dialogo, della difesa dei diritti umani, della lotta alle ingiustizie, della denuncia delle piaghe della regione: dalle morti in mare dei migranti alla guerra, dallo sfruttamento alle persecuzioni. «Nel testo – afferma Baturi – emerge chiara l’indicazione di valorizzare i giovani come “frontiera di pace”, potremmo dire riprendendo il tema degli Incontri dei vescovi del Mediterraneo: a Bari nel 2020 e a Firenze lo scorso anno. Parlare di giovani significa richiamare due dimensioni: il futuro e l’educazione. I giovani sono facilitati nell’edificazione di un futuro fraterno: hanno meno preconcetti e hanno la capacità di sognare. Ecco perché il Consiglio vuole essere un luogo di incontro, di conoscenza, di elaborazione, di lancio di un’articolata rete di rapporti. Poi c’è l’educazione che forma l’uomo libero, capace di coscienza critica, in grado di incontrare gli altri non come nemici ma come coautori di un mondo nuovo».

È un’esperienza di diplomazia dal basso quella proposta dalla Cei, di ragazzi “ambasciatori di pace”, che in un certo senso anticipa gli “Incontri mediterranei” di Marsiglia, l’appuntamento che si tiene a metà settembre nella città francese e che vedrà vescovi e giovani gli uni accanto agli altri alla presenza di papa Francesco che il 22 e il 23 settembre chiuderà l’iniziativa, come aveva fatto a Bari nel 2020 incontrando i pastori del bacino. Non è un caso che alcuni dei “consiglieri” di Firenze parteciperanno anche all’evento d’oltralpe. «Il nostro progetto che si è concretizzato in queste settimane – racconta Baturi – era in cantiere da un anno. Come ci insegna il Papa, senza la cultura dell’incontro anche le grandi idee rischiano di non avere gambe. La Cei ha voluto creare uno spazio umano in cui queste visioni potessero tradursi in concreto. E farlo con i giovani è motivo di speranza».

Eccellenza, il Consiglio è formato da ragazzi che sono espressione delle Chiese del Mediterraneo. Il Vangelo come primo comune denominatore per far dialogare le rive?

Come ben testimonia il Documento sulla fratellanza umana di Abu Dhabi, ciò che può salvare il mondo dal fanatismo e dall’estremismo è un autentico sentimento religioso da coltivare anche nei giovani. Esso ci pone di fronte al mistero di Dio e all’incontro con l’altro come fratello. Per questo i membri del Consiglio sono tutti credenti indicati dalle Chiese. Il senso religioso non è ostacolo all’incontro, ma lo favorisce.

Lei ha conosciuto a Firenze i quaranta ragazzi. Ha dialogato con loro. Che cosa l’ha colpito?

La loro freschezza, quasi la sorpresa che si leggeva nei volti, talvolta anche commossa, di fronte a una possibilità inedita: confrontarsi con altri coetanei che vivono la stessa realtà complessa, oppressa, convulsa nell’ambito del Mediterraneo e in un’ottica di fede. Ascoltando le loro parole penso che questa novità sia per loro una chance anzitutto umana, ma per tutti noi un’opportunità di trasformazione sociale. Senza enfatizzare o alimentare illusioni, sono processi come questo che possono contribuire a cambiare la storia. Nelle prime sedute i giovani hanno discusso di temi impegnativi: i diritti, i conflitti, la fede, l’impegno civico. E hanno mostrato la disponibilità a farsi carico dei destini del prossimo e del mondo intero.

Come i giovani possono essere motori di pace?

Partendo dall’amicizia. Ciò che è contrario alla pace è l’inimicizia, ossia l’uso dell’altro in funzione dei propri obiettivi di potere. Invece una vera dinamica di convivenza e di accoglienza è la risposta al caos e alla contrapposizione. Mentre in varie parti del mondo, come in Ucraina, i giovani vengono mandati a combattere o sono convocati per imparare a odiare, qui vogliamo seminare un avvenire di vita e non di morte. Poi, per noi cristiani, il nome della pace è Cristo. E lo è perché ha abbattuto il muro dell’inimicizia fra i popoli e fra gli uomini.

Siamo in un unico bacino ma le distanze fra le sponde sono evidenti. Come ridurle?

Il Mediterraneo è culla di civiltà e di religioni. La sua collocazione geografica è un destino storico. Se è anacronistica l’opzione dell’indifferenza fra i popoli, possiamo affermare che, qualora non ci sia una convergenza, è quasi inevitabile lo scontro. Perciò il Mediterraneo ha dinanzi a sé una sola prospettiva che è poi una vocazione: l’incontro. Questo può avvenire a partire dai giovani perché hanno desideri alti, hanno energie straordinarie e possiedono capacità di collegamento che mancavano nel passato.

I giovani promotori di dialogo, quindi. Anche a livello ecumenico e interreligioso.

Il Mediterraneo è non solo lungo le coste dell’Italia, ma nei nostri quartieri, nelle nostre città. Serve quindi conoscersi e far germogliare assieme una primavera comune. La reputo la via per riappacificare le nostre città in cui le diverse comunità tendono a ignorarsi o a coabitare sfiorandosi. Far dialogare le persone di terre diverse, magari anche segnate dalle tensioni, può e deve aiutarci a ripensare le nostre città come agorà di pace. Per di più la posizione che l’Italia occupa nel Mediterraneo ci chiama ad essere volano di fraternità. Ne sono ben consapevoli le nostre Chiese che hanno assunto l’impegno di tradurre questa sfida in realtà.

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